IN
GALLERIA
T R I B
U N A L E D I
F E R M O
SENTENZA
(art.544 e segg. c.p.p.)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL
TRIBUNALE DI FERMO - SEZ. PENALE IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA IN PERSONA DEL
GIUDICE
DR. GIUSEPPE LUIGI FANULI
Alla pubblica udienza del 30/10/2000 ha pronunziato e pubblicato mediante
lettura del dispositivo la seguente
SENTENZA
Nei
confronti di:
XXXXXXXX n. a XXXX l’11/4/1962, res. a XXX, c.da XXXX n. 10 -LIBERO PRESENTE-
Avv. to Giorgio Cassotta del Foro di Melfi, di fiducia
IMPUTATO
Del
delitto p. e p. dall’ 589 comma 1 e 2 c.p. perché, mentre alla guida
dell’autoarticolato IVECO MAGIRUS tg. XXXXX –semirimorchio XXXX, percorreva la
carreggiata Sud della A/14, nel senso consentito del tratto Ancona-Pescara,
giunto nei pressi del Km. 289, all’interno della galleria “Pedaso”, per colpa
consistita nel non essersi tempestivamente accorto che sulla sua traiettoria lo
precedeva l’autocarro furgonato FIAT 35 tg. YYYYYY, fermo sul lato destro della
carreggiata per avaria, con le luci di posizione anabbaglianti accese ed il
conducente YYYYY, a piedi, nei pressi dello stesso, azionava tardivamente il
sistema frenante, entrando in collisione con la parte posteriore centro-sinistra
dell’autocarro furgonato, investendo nel contempo YYYYYY: i due veicoli
rimanevano agganciati e proseguivano la loro corsa per m. 57,30, trovando la
posizione di quiete a ridosso della parete destra della galleria.
L’impatto cagionava a YYYYYY un grave trauma, consistito in particolare in
trauma cranico-facciale, toraco addominale chiuso, fratture multiple, lesioni
agli organi interni, emorragia massiva, con conseguente arresto cardio
circolatorio che ne procurava il decesso.
In Porto San Giorgio il 17/9/1999
CONCLUSIONI
Il
Pubblico Ministero così ha concluso: “Chiedo la condanna dell’imputato alla pena
di anni 1 e mesi 4 di reclusione, pene accessorie di legge”
L’Avv.
Cassotta così ha concluso: “Chiedo l’assoluzione del XXXXX quanto meno sotto il
profilo dell’art. 530 secondo comma, perché il fatto così come descritto non
sussiste; in via subordinata, una pena graduata rispetto alla richiesta che
facciamo, concessione delle attenuanti generiche, una valutazione che sia mite e
che sia contemperata alle esigenze o alle condizioni dell’imputato”
FATTO E
DIRITTO
Con
decreto in data 26/5/2000 il G.U.P. in sede disponeva il rinvio al giudizio di
questo Tribunale di XXXXX, per rispondere del reato segnato in rubrica.
Nel corso dell’istruttoria dibattimentale venivano escussi i testi Isp. Marabini
della Polstrada di Porto San Giorgio, Scimenes Flaviano, il consulente
medico-legale del P.M. Nastasi Antonino. Si procedeva, infine, all’esame
dell’imputato.
All’esito dell’istruttoria dibattimentale P.M. e Difesa formulavano le proprie
conclusioni, come sopra riportate.
Ritiene
il Collegio di non sottrarsi all’invito della Difesa di dare attuazione al
principio del libero convincimento e non limitarsi all’”apparenza” del materiale
probatorio acquisito.
Libero
convincimento che, si badi, non può tradursi in mero arbitrio, nel valorizzare
elementi privi di qualsiasi riferimento alla realtà provata.
In tal
caso non di libero convincimento si tratterebbe, ma per richiamarsi a note
categorie idealtipiche Weberiane, di diritto materiale e irrazionale che si
fonda sul sentimento personale del giudice senza riferimento a norme generali.
Tipico l’esempio della giustizia del cadì, il giudice musulmano che seduto al
mercato decide secondo la propria ispirazione senza appellarsi a norme o a
precedenti.
Il
principio invocato dalla Difesa, al contrario, postula, che il giudicante non si
limiti a “constatare”, “delegando” ai testi, la “responsabilità” della
decisione, ma sottoponga a stringente vaglio critico i singoli elementi di prova
– valutandone l’attendibilità, la falsità, l’inconferenza - e, quindi, rielabori
criticamente l’intero materiale probatorio, integrando le prove cd. storiche con
la prova critica.
Tale,
del resto, è il compito del giudice nella valutazione della prova, quale si
desume da una plurisecolare elaborazione dottrinale del principio del libero
convincimento e quale emerge dal sistema processuale vigente.
“Convinco” –dicevano i Romani- “est ita vinco aliquem rationibus et argumentis,
ut manifesta res fiat”.
E’
implicata nella parola l’idea che occorre vincere una lotta, un combattimento,
una partita, un contrasto che rappresenta la trasposizione, allusiva e
simbolica, di un “certamen” interiore.
La
convinzione è il risultato del superamento del dubbio che implica la compresenza
di due ordini di ragioni contrapposte.
Non
esiste, forse, un altro settore dello scibile come quello del diritto in cui il
dubbio anziché essere un male è un rimedio tanto che, se non emerge, è
artificialmente provocato attraverso il contraddittorio. E’ la lotta tra due
opposte alternative che genera il dubbio che viene da “duo”, come “duellum”. Il
superamento del dubbio implica – a sua volta - la separazione tra le ragioni
(dell’accusa e della difesa).
Anche
la parola latina “decidere” viene da “de-caedere” che significa separare,
tagliare le differenze. Anche la parola “certezza” dal latino” certus”,
“cernere” e dal greco “krinein” di cui è metatesi, significa giudicare, ma anche
decidere a separare (da cui la parola “cernita”).
Sotto
il profilo normativo, poi, due sono le disposizioni del nuovo c.p.p.: l’art. 192
co. 1 c.p.p. in tema di valutazione della prova, secondo il quale il giudice
“valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei
criteri adottati”.
Laddove
la parola “criterio “ viene da “cribrum” che viene a sua volta da “cernere” e da
“krino”: il setaccio, il vaglio, il crivello richiama – come krino e come cerno-
l’idea della separazione: il criterio è un setaccio che serve a separare le
ragioni buone dalle ragioni cattive. Ma la separazione implica la coesistenza di
elementi contrastanti che la decisione taglia e un contrasto che il
convincimento compone.
L’altro
articolo è il 546 lett. e) che disciplina i requisiti della sentenza, in cui si
legge: “la sentenza contiene… la concisa esposizione dei motivi di fatto e di
diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a
base della decisione stessa e le indicazioni delle ragioni per le quali il
giudice non ritiene attendibili le prove contrarie”.
In tal
modo il legislatore ci offre un modello non meramente logico ma legale della
motivazione, inteso come conformità della stessa, non tanto ad un paradigma
logico (cioè al principio di coerenza basato sul principio di non
contraddizione), quanto ad un paradigma legale, inderogabilmente fissato dal
legislatore.
Tale
paradigma legale non può certamente essere eluso.
E’
opportuno, inoltre, sottolineare come gli sviluppi del dibattito, dottrinario e
giurisprudenziale, relativo al procedimento di valutazione del materiale
probatorio, abbiano ormai condotto all’abbandono del cd. dogma della certezza,
in favore di una più realistica prospettiva secondo la quale il giudice procede
attraverso i canoni della logica abduttiva, strutturalmente inidonei a produrre
certezza ma capaci, se correttamente utilizzati, di individuare la cd. “ipotesi
preferibile”, vale a dire quella che, secondo logica, più di ogni altra consente
l’ingresso nel processo di una riproduzione del fatto storico il più possibile
conforme al fatto medesimo siccome realmente verificatosi (significativi
riscontri normativi di tale assunto sono gli artt. 2727 e 2729 c.c. e l'art. 192
c.p.p.).
Passiamo, sulla base dell’anzidetta premessa metodologica, ad esaminare i fatti
oggetto del presente giudizio si rileva che, nella specie, si contrappongono
l’ipotesi accusatoria, consacrata nel capo d’imputazione e quella difensiva,
fondata sulla c.d. difesa materiale dell’imputato.
Quest’ultimo, in sede di esame dibattimentale, ha sostenuto, in estrema sintesi,
quanto segue:
- che al momento del sinistro pioveva, tanto che anche nella galleria c’era un
po’ d’acqua (circostanza, questa, seccamente smentita dagli atti processuali):
- che la galleria era “un po’ insufficientemente illuminata” (circostanza,
anch’essa, in contrasto con le risultanze processuali);
- che appena entrato in galleria era stato superato dapprima da un’autovettura
e, poco dopo, dal furgone condotto dalla vittima, che, procedendo a fari spenti,
dopo averlo sorpassato, si era “buttato immediatamente davanti” e aveva
“bloccato”, per cui non aveva potuto evitare l’impatto con il mezzo condotto
dalla vittima.
Tale
ricostruzione, oltre ad apparire, all’evidenza, inverosimile (in quanto
postulerebbe una improbabile e inspiegabile condotta “suicida” da parte della
vittima) risulta smentita in modo chiaro dagli elementi di prova acquisiti al
processo. In ogni caso, come meglio si dirà, anche a voler ammettere che i fatti
si siano verificati secondo la fantasiosa ricostruzione dell’imputato, la
responsabilità dello stesso ne risulterebbe attenuata (nell’ottica sanzionatoria)
ma non certamente esclusa.
L’ipotesi accusatoria, per converso, ha trovato piena conferma dalle emergenze
processuali.
Il teste Isp. Marabini, anche sulla scorta dei rilievi fotografici e
planimetrici, ha riferito quanto segue:
- che, poco prima della segnalazione dell’incidente, era pervenuta altra
segnalazione dagli operatori di Porto San Giorgio e di San Benedetto del Tronto,
secondo cui, vi era un furgone tg. Benevento (come quella del mezzo guidato
dalla parte lesa), nella galleria luogo del sinistro. Le considerazioni della
Difesa volte ad escludere che il mezzo in questione fosse quello della vittima,
fondate su piccole contraddizioni in merito all’orario delle segnalazioni e
sulla natura del mezzo (furgone, invece di autocarro furgonato) appaiono prive
di fondamento;
- che erano state rilevate tracce di sangue della vittima, solo sulla
carreggiata (e non sul furgone) all’interno della corsia di marcia dello stesso,
pressoché al centro della stessa. Tale traccia si trovava a circa 13 metri e 25
rispetto alla parte posteriore dell’autoarticolato condotto;
- che, ancora dietro, erano state rilevate due marcate tracce gommose di
frenata, riconducibili alla ruota anteriore sinistra del veicolo trattore
dell’autoarticolato;
- che, esaminando la posizione della chiave di accensione e della leva, con
riferimento al quadro elettrico –del veicolo condotto dalla vittima- la leva era
nella posizione che a veicolo non acceso, consente l’accensione dei fari
anabbaglianti: il che sembra confermare, per deduzione, che il mezzo si trovava
fermo, con le luci anabbaglianti accese;
- che il veicolo della vittima era stato squarciato, lacerato e compresso per
effetto dell’urto e che, a causa della compressione e dello schiacciamento, se
il conducente dello stesso si fosse trovato all’interno del mezzo, non si
sarebbe potuto, poi, trovare sulla carreggiata;
- che, in occasione della ricognizione esterna del cadavere, erano state
rinvenute, sugli arti inferiori del YYYYY tracce di vernice dello stesso colore
di quella dell’autoarticolato investitore;
- che, al momento dell’incidente, il cielo era nuvoloso ma non pioveva, il manto
stradale era asciutto e la galleria era ben illuminata e, con l’ausilio dei
fari, la visibilità era perfetta.
Il
teste Scimenes, nelle dichiarazioni rese nell’immediatezza dei fatti, acquisite
a seguito di contestazione ex art. 500 co. 4 c.p.p. e la cui attendibilità è
confermata dalle ricordate dichiarazioni del Marabini e dalla planimetria in
atti, ha escluso in modo categorico che il furgone della vittima avesse
effettuato il sorpasso nei suoi confronti poco prima dell’incidente. Ciò ha
confermato categoricamente in sede di esame all’odierna udienza, precisando che
davanti a lui vi era solo il camion condotto dall’imputato (anche se, poi, in
sede di controesame ha sostenuto di non ricordare la circostanza). Lo stesso
teste, inoltre, ha escluso che l’imputato, prima del “botto” avesse effettuato
manovre di emergenza.
La ricostruzione del sinistro, quale descritta nel capo d’imputazione trova
probanti conferme, oltre che nella ricordata documentazione planimetrica, nelle
dichiarazioni rese dal consulente medico dr. Nastasi Antonino, il quale ha
riferito:
- che la causa del decesso del YYYY era da ricondurre all’incidente stradale in
cui lo stesso era stato coinvolto;
- che, sulla base delle lesioni riscontrate, la vittima era stata investita
mentre si trovava, in piedi, fuori dal mezzo: ciò sulla base delle lesioni da
strisciamento che aveva addosso; dovendosi categoricamente escludersi che lo
stesso si trovasse all’interno del furgone e fosse stato proiettato fuori dal
mezzo, attraverso il parabrezza, risultando ciò incompatibile con le lesioni
riportate.
Le
concordanti risultanze probatorie inducono a ritenere che il fatto si sia
verificato così come descritto nel capo d’imputazione.
Va quindi affermata la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato
ascrittogli.
Quanto ai profili connessi al trattamento sanzionatorio l’unico elemento
valutabile a favore dell’imputato è la sua incensuratezza che induce a
concedergli le attenuanti generiche da ritenersi equivalenti alla contestata
aggravante.
Per il resto, non può sottovalutarsi la particolare gravità della colpa
dell’imputato che, quale conducente di un mezzo pesante ed estremamente
pericoloso, ha posto in essere una condotta di guida criminale, denotante il
disinteresse per il pericolo di danno ad altri, tanto da provocare un incidente
devastante in cui il povero YYYYY - “colpevole” solo di essersi trovato in una
galleria, con il mezzo in panne - è stato travolto, mentre si trovava, a piedi,
in prossimità del mezzo, in attesa di soccorsi, ed ha trovato, invece, una molto
prematura morte. Condotta criminale rispetto alla quale l’imputato non ha
mostrato alcun segno di resipiscenza.
Valutati i parametri di cui all’art. 133 c.p. stimasi equa irrogare la pena
di anni due e mesi due di reclusione.
Sussistono le condizioni per la concessione del beneficio della sospensione
condizionale della pena.
Segue, per legge, la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali
e la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida per la durata,
ritenuta congrua, di anni uno.
Per
ragioni di completezza, va affrontata l’ipotesi sostenuta dalla Difesa – quale
si è estrinsecata non solo in sede di discussione, ma anche in sede di
controesame dei testi d’accusa - alla base della quale sembra annidarsi un
equivoco di fondo.
La Difesa ha mirato soprattutto a dimostrare che il fatto ebbe a verificarsi con
modalità concrete diverse da quelle indicate nell’imputazione, per poi giungere
ad una richiesta di assoluzione dal fatto così come contestato, siccome diverso
da quello effettivamente realizzato. Del resto, se anche il fatto si fosse
verificato secondo la fantasiosa ricostruzione dell’imputato – che, come detto,
è stata totalmente smentita dagli atti utilizzabili ai fini della decisione -
non si vede come questo potrebbe andare esente da responsabilità. E’ pacifico,
infatti, che in tema di lesioni ed omicidi colposi commessi con violazione delle
norme sulla disciplina della circolazione stradale, è compreso nell’obbligo di
tenere un comportamento prudente ed accorto da parte del conducente di un
automezzo, quello di prevedere le imprudenze altrui e, in ogni caso, di tenere
una condotta di guida tale da prevenire eventi dannosi conseguenti a dette
imprudenze. Orbene, tale obbligo di prudenza sarebbe stato patentemente violato
dall’imputato anche a voler prendere per buone – in mera ipotesi - le
dichiarazioni dallo stesso rese: non è chi non veda l’imprudenza di colui che
pur circolando all’interno di una galleria male illuminata, con il manto
stradale bagnato per la pioggia, mantenga una velocità del tutto inadeguata
(superiore agli 80 km/h) e non sia in grado di mantenere il controllo del mezzo
dopo essersi visto superare da un “pirata della strada” che viaggiava a fari
spenti, tanto da determinare un sinistro devastante di cui si ha cognizione
dall’esame della documentazione fotografica relativa ai danni provocati ai mezzi
e alle stesse strutture stradali, in galleria, nonostante la rilevantissima
frenata, di cui danno conto le tracce lasciate sulla carreggiata.
Tale
modo di argomentare della Difesa si espone ad evidenti obiezioni:
- anzitutto, ove si dovesse effettivamente rilevare la diversità tra fatto
contestato e quello emerso in dibattimento, la conclusione, imposta dall’art.
521 co. 2 c.p.p., non sarebbe certamente quella dell’assoluzione dell’imputato,
bensì quella della trasmissione degli atti al Pubblico Ministero:
- inoltre, nel caso in esame, anche se fosse – sempre mantenendosi nel campo
delle ipotesi destituite di concreto fondamento - emersa una realtà fattuale
conforme a quanto affermato dall’imputato in sede di esame e, precedentemente,
in sede di interrogatorio non si verserebbe in ipotesi di fatto diverso.
La
problematica da ultimo cennata merita un approfondimento.
Sotto il vigore del codice di procedura penale del 1988 si è ritenuto che il
principio della correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza
trae il suo fondamento, anche nella nuova disciplina dettata dagli artt. 521 e
522 c.p.p., dall’esigenza di tutelare in concreto il diritto di difesa,
impedendo che l’imputato possa essere condannato per un fatto non contestato ed
in ordine al quale non abbia potuto difendersi (cfr., tra le altre: Cass. sez.
III, 3 aprile 1992, Nesti ed altri, in C.E.D. Cass. n. 189798; Cass. sez. III,
15/6/1998, n. 9620, Ricci, in C.E.D. Cass. n.211214; Cass. sez. VI, 8/6/1998, n.
6753, Finocchi ed altri, in C.E.D. Cass. n. 211003).
Tale
principio è stato più volte oggetto di puntualizzazioni e specificazioni da
parte della Corte, di cui si richiamano le più significative:
- a fondamento del principio posto dall’art. 521 c.p.p. sta l’esigenza di
assicurare all’imputato la piena possibilità di difendersi in rapporto a tutte
le circostanze rilevanti del fatto che è oggetto dell’accusa. Ne discende che il
principio in parola non è violato ogni qualvolta siffatta possibilità non
risulti sminuita perché la divergenza tra il fatto contestato e quello ritenuto
in sentenza non incide su tratti essenziali del fatto stesso, oppure perché
l’imputato anche attraverso il suo stesso interrogatorio, è stato messo in
condizione di difendersi anche in relazione al fatto diverso da quello descritto
nella imputazione (Cass. sez. I, 26/5/1993, Ceraso, in C.E.D. Cass. n. 194219;
Cass. sez. V 28/7/1992, Chirico, in C.E.D. Cass. n.191485; Cass. sez. I,
8/10/1992, Raciti, in C.E.D. Cass. n. 191871). Ne consegue, altresì, che va
negata la configurazione della violazione del detto principio ogni qualvolta
l’imputato abbia, comunque, avuto conoscenza del fatto ritenuto in sentenza,
intendendosi per fatto conosciuto non solo quello enunciato nell’atto di rinvio
a giudizio, ma anche quello che sia stato consacrato in ogni diverso tipo di
atto processuale, o che sia stato ammesso oppure prospettato dallo stesso
imputato (Cass. sez. VI, 18/5/1995, Sica, in C.E.D. Cass. 201673): il che
sarebbe proprio l’ipotesi in esame;
- Con riferimento al principio di correlazione tra imputazione contestata e
sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale,
nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume
l’ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza
sull’oggetto dell’imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio dei
diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la
violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero
confronto letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia
di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando
l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella
condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (CASS.
S.U. 22/10/1996 n. 16, Di Francesco, in C.E.D. Cass. n. 205619; Cass. sez. I,
26/11/1996, Albano, in C.E.D. Cass. n. 206092; Cass. sez. I, 25/6/1997,
Sgranfetto, in C.E.D. Cass. n. 207934).
Come è
evidente, dalla nozione innanzi esposta e ricavata dalla giurisprudenza, si
giunge a quella di fatto contestato che deve intendersi non solo quello indicato
nel capo d’imputazione, ma anche quello risultante da tutto il complesso di
elementi portati a conoscenza dell’imputato e sui quali esso è stato posto in
condizioni di difendersi (cfr. Cass. sez. V, 9/12/1987; Cass. sez. III,
13/11/1992 n. 10948; Cass. sez. 1, 27/10/1995, Guarneri ed altri, in C.E.D.
Cass. n. 202535; sez. 1, 12/9/1995, Zara; sez. 1, 12/9/1995, Gannone ).
Nel
caso di specie, come detto il fatto diverso sarebbe stato prospettato proprio
dallo stesso imputato.
Ma vi è di più: è pacifico che per immutazione del fatto deve intendersi solo
quella che modifica la struttura della contestazione, in quanto sostituisce
radicalmente il fatto tipico, il nesso di causalità e l’elemento psicologico: il
che non si verifica quando –come nel caso di specie, se ne modificano solo nei
dettagli le modalità di realizzazione (cfr., ex plurimis, CASS. sez. I, sent.
11265 del 17/11/1995).
Tra
l’altro, in materia di responsabilità colposa, va ricordato il consolidatissimo
e condivisibile insegnamento della Suprema Corte, secondo cui “nei procedimenti
per reati colposi, la sostituzione o l’aggiunta di un particolare profilo di
colpa, sia pure specifica, al profilo di colpa originariamente contestato non
vale a realizzare diversità o immutazione del fatto ai fini dell’obbligo della
contestazione suppletiva di cui all’art. 516 c.p.p. e dell’eventuale
ravvisabilità, in carenza di valida contestazione, del difetto di correlazione
tra imputazione e sentenza ai sensi dell’art. 521” (cfr., ex plurimis, CASS.
Sez. I, 15/2/1997 n. 11538).
P.Q.M.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI FERMO
Visti
gli artt. 533,535 c.p.p. dichiara XXXXXX colpevole del reato ascrittogli e in
concorso di attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante lo
condanna alla pena di anni due e mesi due di reclusione ed al pagamento
delle spese processuali. Sospensione della patente di guida per la durata di
anni uno.
Fermo,
il 30 ottobre 2000
IL GIUDICE
|